Si può aiutare chi non vuole essere aiutato?

Per esempio può esserci una richiesta verso un figlio che assume
condotte negative a detta dei genitori o degli insegnanti oppure la
richiesta può essere fatta a favore del proprio partner nella speranza
di un miglioramento del menage familiare o ancora verso un fratello,
sorella, amico\a o genitore che si percepisce essere in difficoltà. In
questi casi spesso la persona interessata non sente il disagio o semmai
lo attribuisce al contesto. Non sentendo un esigenza personale di cura è
frequente l’affermazione: “curati tu, io stò benissimo!”

 

Allora cosa si può fare per
aiutare chi non vuol essere aiutato??

Se la persona interessata è un adulto non “costretto” da una prescrizione di cura (per esempio da parte di un Tribunale) la bassa motivazione rende il sostegno molto difficile. Non può essere costretto,soprattutto se non arreca danni evidenti a se stesso o agli altri, pur necessitando quanto prima di un aiuto che ne impedisca un
graduale peggioramento. Un esempio potrebbe essere quello di persone affette da forme varie di depressione o di dipendenze, come quelle da
gioco o anche da una delle varie forme di ritiro sociale.

Di solito l’insistenza da parte dei familiari o amici affinchè vi sia un percorso di cura supera i limiti che rendono tale “vicinanza” positiva. Questa insistenza che diventa eccessiva in termini di intensità e\o durata produce spesso un risultato opposto, aumentando le resistenze alla cura e l’ostinazione a non vedere le ragioni e le conseguenze del proprio agire. Ciò a sua volta può paradossalmente provocare forti sensi di impotenza nelle persone vicine e spingerle ad insistere ancor di più (in una spirale di chiusura reciproca) oppure all’opposto spingerle al distacco emotivo, alla distanza!

Purtroppo questo apre di frequente una vera e propria conflittualità sulla esigenza di cura tra familiari e\o amici e la persona interessata.
In questi casi , a meno che non vi sia un cambiamento di atteggiamento da parte di tutti le speranze di un successo terapeutico sono piuttosto basse. Quindi una cosa da tenere presente è di mantenere vivo l’interesse verso la persona interessata da parte di familiari ed amici ma senza che tale interessamento diventi una oppressione  ….
a volte mi viene detto: “e quindi non dobbiamo fare nulla?”certamente no!

Il conflitto anzi ricorda che la sofferenza è di tutti e risolvere queste situazioni è possibile attraverso un passaggio importante in cui sia compreso il coinvolgimento anche delle persone stesse che contattano lo psicologo.

“Quando tutte le parti si mettono in gioco, tutte le parti abbassano le difese!”

non è corretto pensare che le difficoltà siano esclusivamente da ricondurre al fatto che una data persona non vuole farsi curare, bensì le dinamiche in gioco sono spesso più complesse e riguardano l’intero sistema famiglia, come si comunica, quale ruolo si è incarnato e come si considera l’altro.

La qualità delle relazioni e della modalità comunicativa in famiglia ha un effetto rilevante sulle difficoltà che si vogliono affrontare anche quando esse non siano necessariamente la causa.

 


Come possono quindi familiari e persone vicine approcciarsi al colloquio con lo psicologo?

Evitando innanzi tutto il pensiero che la persona che esse vorrebbero inviare sia colei la quale è portatrice del “disturbo”. Forse potrebbe essere più utile considerarla come la portatrice del “sintomo” e considerare tale sintomo come una delle possibili manifestazioni di un problema più grande di cui tutte le parti fanno parte ed è trattando tale problema più grande che si risolverà anche il “sintomo”…e quanto detto è tanto più vero se si tratta di adolescenti.

Un adolescente sofferente sul piano psichico ma che si oppone con
modalità non collaboranti è quasi sempre un adolescente che viene
trattato ancora secondo modalità infantili e percepisce la propria
famiglia come non in grado o non intenzionata ad ascoltarlo come
vorrebbe, e si ribella, si oppone con i mezzi che può!

Le situazioni in cui un ragazzo\a ha bisogno di uno spazio personale
ove raccogliere le confidenze, segreti, paure (come fa rivolgendosi ad
uno psicologo) sono in percentuale nettamente minori delle situazioni in
cui esso\a ha bisogno di veder riconosciuto il suo essere soggetto in
crescita e di poter migliorare la comunicazione con i propri familiari


Quando invece la prescrizione
di un percorso psicologico venga da una istituzione?

In questi casi, come per esempio nelle separazioni, o nel caso di
reati, la prescrizione viene considerata inutile ed oltraggiosa in
quanto imposizione lesiva della propria libertà. Lo sforzo più grande
sarà quello di cercare una “alleanza di lavoro” che tenga conto del
particolare iter seguito dalla persona. Sarà utile cercare di
comprendere le ragioni che hanno condotto il giudice a prendere una così
specifica decisione, individuando, se necessario anche quali
comportamenti saranno da evitare per non subire ulteriori restrizioni o
imposizioni.

Questo è ugualmente vero qualora sia un familiare ad imporre ad un
altro un percorso psicologico a seguito di atti ritenuti fortemente
lesivi e quale condizione per non rompere la relazione. Per esempio un
coniuge che impone all’altro una psicoterapia dopo un tradimento oppure a
fronte di abitudini legate al gioco d’azzardo o altre dipendenze. Sarà
la comprensione delle ragioni del gesto compiuto e la elaborazione di
modalità che possano risanare la relazione il focus dell’intervento.
Intervento che necessariamente dovrà includere tutte le parti coinvolte.
Spesso difatti quando la situazione si è leggermente risistemata le
sedute vengono subito sospese e a questo segue una ricaduta che
oltretutto porterà difficilmente di nuovo dallo psicologo in quanto
“strada già percorsa senza successo!!”

 

in conclusione

laddove vi sia un “paziente” non motivato l’apporto della rete
attorno ad esso ed in particolare dei familiari risulta vincente per
sbloccare situazioni compromesse e portare ad esiti positivi e a
cambiamenti.
E tornando alla domanda, se è possibile aiutare qualcuno che non vuole essere aiutato, la risposta è “sì, certo!” ma ricordiamo anche che:

L’obiettivo non è quello di spingere l’altra persona a vivere una
vita che noi riteniamo essere più giusta per essa. Piuttosto aiutarla a
trovare la sua strada nella speranza che possa renderla più serena e
anche se ciò non corrisponde al nostro modello di vita!

Cio che noi possiamo con le nostre azioni, le nostre parole e i
nostri sentimenti ha dei limiti. Sicuramente non potremmo agire per
conto dell’altra persona e anche se è doveroso provare ad aiutare
l’altra persona, essa rimane libera e padrona della propria vita.. e
questo anche se è difficilissimo da poter accogliere vale anche per i
nostri figli

Tanto più vicina è la persona che vorremmo aiutare, tanto più è
probabile che si possa optare per sacrificare tutto, compreso il proprio
benessere personale. Questo risulta spesso deleterio su tantissimi
fronti. Prendendone solo un paio ad esempio: a) sacrificare
completamente se stessi non permette di poterci essere davvero per
l’altro se non svuotati e solo in funzione di una relazione di “aiuto” e
non di “piacere” b) gli atteggiamenti che tendono all’abnegazione
rischiano con più frequenza di provocare un effetto opposto, facendo
“scappare” l’altro dalla troppa pressione.

Onde ovviare tale problema ricordarsi di “continuare a vivere la propria vita” e che la parola d’ordine è “Pazienza”

Aiutare chi non vuol essere aiutato